Dopo 15 anni di carriera appende le ginocchiere al chiodo l’ex Casalmaggiore Marianna Ferrara. La schiacciatrice ha vestito i colori rosa nella stagione 2015/2016 culminata con la vittoria della Champions League e la Supercoppa Italiana. Con la Vbc ha giocato anche la sorella Martina, nella stagione 2021/2022.
Classe 1996, dopo Casalmaggiore, una stagione in Francia con l’Evreux, poi sempre A2 con Chieri e Baronissi e successivamente Cerignola, Telesino e Altino. Ferrara ha affidato il suo addio alla pallavolo giocata con una lunga lettera pubblicata sui suoi social.
“Ogni bambina alta poco più di un metro e venti ha dei sogni, e piccoli o grandi che siano, questi l’accompagnano ad ogni passo, da quando si alza controvoglia la mattina per andare a scuola, a quando la sera prima di addormentarsi si prefigura persone e scenari che non esistono se non nella sua fervida immaginazione.
Si sognano tante cose quando si è alti un metro e venti: di avere un cagnolino che si chiami Zorro; di ritrovarsi sorella maggiore; di interpretare il lago dei cigni davanti ad un teatro gremito; di essere una principessa che trova il suo principe, o il suo rospo e vissero tutti felici e contenti.
La me alta un metro e venti, invece, sognava di giocare a pallavolo; di alzare tante coppe, proprio come mamma; di saltare tanto alto, proprio come Mila; di avere tante medaglie incorniciate, proprio come papà.
Dicono che se in un sogno credi tanto prima o poi si avvera.
Io penso che non sia tanto una questione di quanto tu ci creda, ma di quanto tu sia disposto a faticare, e a sacrificare, perché si avveri. Perché alle volte crederci non è abbastanza.
Sacrificare significa privarsi di qualcosa, lasciarla andare, per un bene da noi percepito come più grande.
E quando lasciare andare vuol dire fare un passo verso il tuo sogno, lo fai a cuor leggero.
E quindi niente gite scolastiche, né uscite il sabato sera perché c’è allenamento; niente pranzi dalla nonna di domenica, né sabato pomeriggio passati in giro senza una meta perché c’è la partita.
E poi parti, via, lontano, per inseguire quel sogno. E scopri per la prima volta il mostro evergreen della lontananza, che crea una patina su tutto, come la polvere che ricopre le superfici di una stanza poco usata. Sta lì e tu lo sai, ma lasci chiuse le porte perché in fondo lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Parti e capisci che tutti sono utili ma nessuno è indispensabile, che la vita continua a prescindere da quale sia il luogo che chiami casa; e continua anche quando, col passare del tempo, ti sembra di non averlo neanche più un posto da chiamare casa.
Ogni anno (che per me ormai è quel periodo che va dall’inizio della preparazione alla fine della stagione) la stessa storia: un nuovo inizio, nuova squadra, nuova città, nuove compagne, nuovi obiettivi.
E come si fa tra tutte queste novità a restare sempre uguali a se stessi?
Sempre uguali a quella bambina alta un metro e venti che non vedeva l’ora di metter su scarpe e ginocchiere e andare ad allenarsi?
Panta Rei, tutto scorre diceva Eraclito e il fiume che ti bagna adesso non è lo stesso che ti ha bagnato un istante fa.
Ma l’acqua del fiume non è la sola a non esser più la stessa, neanche tu la sei.
Cambiano i pensieri, cambiano gli interessi, cambiano le priorità, i capelli no, quelli non cambiano mai.
E ti ritrovi un giorno, o forse era una notte, stesa sul letto a guardare il soffitto e a pensare a come diavolo ti ci sei ritrovata in quel letto, in quella casa, in quel corpo che seppur anagraficamente giovane, fa così male che starci dentro ti sembra quasi una condanna.
Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano.
Alle volte però, quando han fatto il loro tempo, è necessario lasciarli andare, certi amori.
Sacrificarli e darsi la possibilità di diventare ciò che si è destinati ad essere.
E così fai la seconda scelta più importante della tua vita: scegli di mettere un punto ad un capitolo della tua esistenza, quello che più di ogni altra cosa ti ha sempre definita.
Quindici anni (e qualcosa in più) di valige fatte e disfatte; di allenamenti estenuanti; di stagioni da dimenticare e altre da incorniciare; di brutti infortuni e di fisioterapie infinite; di vittorie al cardiopalma e sconfitte cocenti; di docce fredde e spogliatoi da incubo; di sorrisi complici e di strette di mano; di sguardi sinceri e frasi di circostanza; di lacrime di frustrazione e risate di pancia.
Alla fine di un capitolo così importante vorrei spendere due parole di ringraziamento.
A tutte le persone belle, vere e genuine; a quelle che sono state monito di quello che non sarei mai voluta diventare; a tutti gli allenatori che sono stati delle guide e a quelli che alla fine hanno fatto solo ridere; ai fisioterapisti che hanno provato a curarmi e a farmi star meglio e a quelli che alla fine ci sono riusciti per davvero; a mia mamma, con la quale litigo di continuo, ma che è sempre stata l’esempio da emulare e a mio papà, che ha creduto in me più di quanto sia mai riuscita a fare da sola, le due persone che mi sono sempre preoccupata di non deludere; alle mie ginocchia, che sembrava impossibile, ma ce l’hanno fatta.
Racchiudere quindici anni in dieci foto è stato un lavoro di una difficoltà non indifferente, come quando sul cono devi scegliere l’ultimo dei tre gusti e sei indeciso tra nocciola e pistacchio.
Me ce l’ho fatta e con queste mi accomiato ufficialmente dalla pallavolo giocata
È stato un piacere (anche se a volte meno).
Buona vita a tutti”
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